Nives di Sacha Naspini
Elaborare un lutto può essere una buona opportunità di diventare Sé Stessi.
Nives ha sessantasette anni, ha appena perso il marito Anteo e cerca di affrancarsi dall’angoscia che ne deriva e la invade così tanto da minacciare la sua identità profonda attraverso una irrimediabile insonnia. Tuttavia non piange, non ci riesce. La prima cura che Nives presta a sé stessa per placare i sintomi post lutto è porre rimedio con una presenza che ci sia al risveglio, in quel letto coniugale, in quella casa. E così, tra tutti gli animali che potrebbero essere disponibili nella fattoria che manda avanti, sceglie proprio Giacomina, la gallina che in passato è sopravvissuta ad una infezione che l’ha lasciata zoppa di una zampa. Giacomina diventa per Nives un oggetto di cura ossessiva, una nuova presenza a cui dedicare sé stessa e tutte le attenzioni. Il rimedio è decisamente efficace per i sintomi del disagio notturno ed è anche l’incipit di una cura ben più profonda, che viene cercata inconsapevolmente ed arriva in modo inatteso, liberatorio e rivelatore. Nel bel mezzo della notte Nives contatta il veterinario del paese per chiedere soccorso e rimedio all’imbambolimento ipnotico inspiegabile ed improvviso di Giacomina. E comincia la telefonata del romanzo, la richiesta di aiuto.
Il motivo della telefonata cela e si rivela in realtà come il desiderio di qualcos'altro. La richiesta fatta per Giacomina è solo un rompighiaccio… da cui Nives, pagina dopo pagina, emerge come una Regina. Nel bel mezzo della notte si susseguono parole e rivelazioni strumentali all'epifania di Nives. Che però non lo sa. Non si chiede il perché. Lo fa e basta. Durante la telefonata di Nives vogliamo solo ascoltare che ha da dire e non sappiamo dove ci porterà. All'inizio il motivo mi sembra davvero ridicolo, poi quel che viene detto mi pare tutto una follia, un non senso. Eppure mi tiene lì incollata ad origliare la simpatia, la verve, la spontaneità, la libertà di espressione, la fermezza, l’irruenza senza freni che si prende Nives durante la conversazione. La trovo irresistibile e a lei va tutta la mia attenzione. A mano a mano che procedo con le pagine quel che mi sembrava folle assume la forma di un dramma.
Nives è stata in silenzio a lungo, il silenzio si è impossessato di lei e l’ha divisa a metà. La metà che ha dovuto fare silenzio ha dovuto anche far tacere l'altra metà. Che in questa telefonata finalmente ha trovato il coraggio di parlare. L’avremmo potuta creder morta la parte che oggi ascoltiamo al telefono…e invece in un climax che squarcia qualsiasi tabù si fa finalmente sentire. Sento di avere una sorta di privilegio nel poterla ascoltare. Mi è chiaro che Nives non sta parlando del lutto del marito, ma mi sta mostrando quel che ha risvegliato in lei quel lutto. Una parte di Nives si è fatta e si è creduta morta in tanti anni di matrimonio. Ma non è morta affatto. E’ un po’ come se Nives avesse un lutto in sospeso con Sé stessa.
“In camera c’era già la valigia. La tenevo sotto lo stesso letto dove dormo adesso. Ci avevo messo dentro poca roba… Oh, erano state settimane d’inferno. La sera, in bagno, mi toglievo la fede, la mettevo sul lavandino. Guardavo quella mano nuda. A volte mi girava un po’ la testa: ne sarei stata davvero capace? Ma la risposta c’era e non lasciava posto ad altre possibilità: dovevo farlo e basta. Dopo le baldorie della Festa d’autunno arrivammo a casa per miracolo. Anteo aveva guidato per tutto il tempo per via dei vini e dei liquori. Sarebbe stato davvero triste sfracellarci su un curvone… Forse non dovrei dirlo, ma in mille occasioni mi sono ritrovata quasi a rimpiangerlo: “Magari fossi morta quella sera!”. L’ho già detto: una me è andata all’altro mondo il 13 ottobre dell’82… Spogliai mio marito, lo misi a letto. Si addormentò sodo in un momento. Lo guardai per tanto tempo, come aspettando una voce divina che mi ordinasse a rinunciare, togliermi dalla testa quella pazzia. Non venne. Allora sfilai la fede per l’ultima volta, la misi sul comodino. Tirai fuori la valigia. Nel chiudermi la porta alle spalle dovetti fare la battaglia peggiore. Fa strano varcare la soglia di casa tua sapendo che non tornerai mai più… Lasciai le chiavi nella serratura. Nel percorrere lo stradone non mi voltai neanche una volta. Finché arrivai all'asfalto. Era mezzanotte. In cielo c’era la luna calante, mi ci aggrappai con tutta me stessa. A tratti venivo presa da un vento bello, faceva muovere le fronde; ogni volta mi sembrava di intuire là in mezzo le sgasate di un motore. Allora pensavo: “Eccolo! Eccolo! Lo stiamo facendo…”. Guardavo la curva della provinciale. Ero così fuori di me che mi pareva di vederla illuminarsi dai fanali. Che però non sono mai arrivati. Quando rientrai in casa ero un pezzo di marmo, per tanti motivi. Rimisi le chiavi al loro posto, la valigia sotto il letto. Anteo non si era mosso di un centimetro. Mi rimisi l’anello. Nell'infilarlo ebbi l’impressione di avvertire un rumore metallico, come quello delle manette. Andai in bagno, tolsi quel po’ di trucco che restava. Mi spogliai, indossai la solita camicia da notte. Fu nel mettermi sotto le coperte che per la prima volta intuii il lutto di me. Non è passato più”.
Durante la lunga e serrata telefonata notturna, come notturna è la voce che vuole emergere e che forse è proprio la causa dell’insonnia, Nives elabora il dolore da cui si è sentita costretta a vivere parzialmente, avendo dedicato gran parte delle energie e dei sentimenti al tamponamento continuo di una ferita di gioventù con la paura che si infettasse. Vivere a metà ha reso Nives zoppicante come la sua adorata Giacomina. Nives ha sessantasette anni, eppure al telefono sento anche un’altra Nives. Suppergiù trentenne, delusa, amareggiata e in lotta. Ma ancora vitale. Che ha compiuto un ingiusto atto di forza contro la nostra cara Nives, che da poco ha perso il marito. Le ha impedito di continuare a crescere ed evolvere attraverso gli eventi e i sentimenti che l’avrebbero aspettata e che di fatto hanno contraddistinto la sua vita fino a oggi. Le ha impedito di amare, di decidere, di affezionarsi. Trovo che sia impossibile Vivere a pieno quel che c’è, quando si rimane ancorati a quel che è mancato o a quel che (forse) sarebbe potuto essere. Questo atto di forza è il grande impedimento della vita di Nives.
Mentre leggo le pagine realizzo che in realtà non era la forza che le sarebbe servita e che tanto si è costruita costringendo sé stessa, ma il coraggio. Una storia con troppa forza e poco coraggio. Perciò Anteo, che guarda caso etimologicamente significa “nemico”, “rivale”, pare proprio assolvere un ruolo congeniale in un copione che parla di lotta e di forza. E ora che Anteo, il marito defunto, non c’è più quale potrà mai essere il senso della vita di Nives? Va cambiato il codice di significato, là dove Nives era rimasta. Tocca per forza tornare là, sull'asfalto a trenta metri da casa, in quella notte in cui Nives aspettava i fari di una macchina che non arrivarono mai.
Come può Nives rimettersi in quello stesso letto ora che Anteo non c’è più ad “ostacolarla”?
Non può. Può essere solo Nives a dare un nuovo senso a quella mancanza. Ma va cambiato il significato. Non va più bene raccontare a sé stessa di ostacoli o nemici. Perché non ce ne sono più. E la storia deve andare avanti perché Nives ha voglia di vivere. Come fa Nives a farlo? Parla, fruga tra i ricordi, rivela scomodi segreti, sente e finalmente comprende Chi è e Chi ha di fronte.
In lei avviene un insight, come un lampo. Dapprima in modo inconsapevole, folle e poi lucida prosegue dritta per la sua strada. Non è più tempo di aspettare, a sessantasette anni. Anziché aspettare i fari agisce e solleva quel telefono con cui si era spesso trovata a parlare in solitudine. Lascia da parte la lotta, gli ostacoli e la forza. Trova il coraggio e comincia a parlare. Procede spedita nel raccontare come è andata la sua vita da donna dimezzata e nel farlo travolge e si lascia travolgere. Senza più vergogna né censura dà spazio al flusso di emozioni e sentimenti. Pretende senza senso, suscita imbarazzo, provoca, è rabbiosa, piange. Finalmente piange e sente il dolore per sé stessa. Quel che verosimilmente un cuore può sentire dopo un lutto. Così, attraverso un cortocircuito miracoloso tutte queste emozioni si impastano in un senso nuovo che viene trovato da Nives e fanno tornare la luce su di Lei che sente finalmente di Vivere e di avere vissuto.
Nelle ultime pagine Nives diventa la donna che è. Si riconosce finalmente. Il coraggio le dà la semplicità che le serve per tornare intera, con una identità consapevole di sé ben distinta dall'illusione che ha rincorso tutta una vita. Non è affatto tardi per collegare il passato al presente dove ora si sveste del ruolo finto di colei che aspetta e rimane delusa. Nives ora vede, riconosce gli errori di valutazione che l’hanno stordita, imbambolata e fatta spettatrice (un po’ come Giacomina che è rimasta ipnotizzata davanti allo schermo della TV). Nives ora può tornare ad essere autrice della vita che le rimane e di quella che ha già scritto.
[…] Ditemi se una notizia del genere non è una benedizione… Non sarò stata una campionessa, prima come moglie e poi come madre, ma all’improvviso questo lo posso urlare, ora, col pendolo che batte le ore piccole: non mi sono ingannata mai. Giorno dopo giorno sono stata qui, a rigirarmi tra le mani i cocci di tanti sogni infranti con lo sguardo annebbiato. C’erano Laura e Anteo, c’era la tenuta. La vita modesta di persone perbene che tirano avanti dando peso alle piccole cose: i Natali, le Pasque, i compleanni, le sere d’estate… Ero al centro di tutta questa roba e anche di più come una regina, ma non me ne accorgevo perché presa da un’altra battaglia. Ora che mi rendo conto di essermi data a metà mi mangerei le mani; per contro c’è un’evidenza che mi scalda dalla testa ai piedi: ho avuto tanto ed è qui, intorno e nei ricordi. Non mi basterebbero sei vite per sfogliare questo libro d’oro che d’un tratto mi è fiorito dentro, dandomi peraltro della sciocca nel rivedermi negli strazi che mi piaceva coltivare, di ragazza e poi donna buttata via. Nel frattempo ero accudita nel posto più bello del mondo e neanche me ne accorgevo. […] Domattina vado a prendere mezza pensione e invio a quei miei nipoti d’oltralpe un regalo da fargli luccicare gli occhi. Perché alla fine è successo davvero: sono impazzita. Ma di contentezza”.
Questo romanzo scorre, diverte e sorprende. Ho cercato l’etimologia di Nives e ho scoperto che, come per Anteo, è affine alle caratteristiche della protagonista. Ed è affine anche al romanzo che ne porta il titolo. Ha il coraggio di dire la sua anche a costo di essere criticato. Quanti stereotipi di genere crollano con il personaggio di Nives, quanta realtà senza ipocrisie esce da quella bocca e in quelle pagine scoppiettanti di vita. Non contano più per Nives i moralismi, né i perbenismi da cui si è fatta incastrare per la paura del giudizio e delle malelingue. Nives finalmente a sessantasette anni manda in pensione la paura e riesce a trovare quel coraggio di Essere Nives.
Nives non sarà un essere perfetto. Ma che ci importa, chi lo è? Ha tanto da insegnare sul lutto. Il lutto per chi rimane è Vita e Morte insieme. Nell'elaborazione del lutto c’è una buona parte di noi che rimane coinvolta nel ricollocare internamente la mancanza di chi si è perso fuori. E c’è una buona parte di noi, ancora più grande, che dopo un lutto torna e ci fa ritornare a fare i conti con chi siamo diventati. Non si può scappare da noi stessi, né girarci dall'altra parte per non vedere ciò che non ci piace o non ci dà pace. A maggior ragione dopo un lutto.
Un bene al mondo di Andrea Bajani
Un bene al mondo racconta di un paese sotto una montagna, a pochi chilometri da un confine misterioso. Un paese come gli altri: ha poche strade, un passaggio a livello che lo divide, una ferrovia per pensare di partire e un cimitero di cui nessuno vuole parlare. Nel paese c’è una casa con un bambino, una madre e un padre. Il bambino ha un dolore per amico, la madre ha gli occhi vuoti e il padre ha il suo dolore rabbioso rinchiuso dentro uno sgabuzzino. Il dolore è un cane. Accompagna a scuola il bambino, corre nei boschi insieme a lui, lo scorta fin dove l’infanzia resta indietro. Nel paese c’è una bambina sottile. Vive oltre i binari della ferrovia e si prende cura del bambino, ne custodisce le parole. È lei che gli fa battere il cuore, che per prima accarezza il suo dolore.
Un bene al mondo è una storia d’amore e di crescita piena di intensità e di poesia. È una storia universale, perché racconta quanto può essere preziosa la fragilità se non la rifiutiamo. Basta cercarsi su una mappa, disseminare parole per trovarsi, provare altre strade e magari perdersi di nuovo. Il dolore che ognuno si porta dentro è come un cane. I dolori degli altri sono simili o molto diversi ai nostri. Non tutti i dolori sono adorabili come quello del bambino, proprio come esistono cagnolini inoffensivi e cani feroci. Il dolore va fatto scorrere come si fa scorazzare un cane nel bosco, va lasciato libero, custodito e riconosciuto.
"Quel dolore lasciato a casa era il loro segreto, e il bambino sapeva che un segreto condiviso trasforma un incontro in una cosa importante".
"Il bambino si aggirava per il paese nervoso, e anche quando era con la bambina, non era mai veramente con lei. Lei gli faceva domande che lui non sentiva, e il bambino scappava via sempre prima del tempo. Quando un pomeriggio gli chiese il perché di quella fretta e di quelle risposte che non arrivavano mai, lui disse che non erano cose facili da spiegare. Lei lo invitò a provarci, ma non servì. Il bambino corse via insieme al dolore, e lei tornò lentamente nel suo palazzo di cemento."
"Poi il bambino prese il secchio marrone, aprì la porta di casa e scese le scale con il dolore che gli scodinzolava dietro. Per le scale non incontrò nessuno, ma dietro le porte, a ogni piano, sentì delle persone parlare. Si incamminò lungo il vialetto, zoppicando un po', perché il secchio era pesante. Arrivato ai bidoni dell'immondizia, provò ad alzarlo e a svuotarlo ma non ci riuscì. Lo lasciò lì accanto con dentro tutti i pezzi rotti della sua casa. E però c'era un vento fresco che puliva il cielo. Si sedette sul marciapiede e accanto a lui si sedette il dolore. Guardarono le stelle e cominciarono a contarle, e quando furono tante il dolore si era addormentato".
La casa senza specchi di Marten Sandèn
La vicenda si svolge dentro una casa gotica, ormai privata di tutti i mobili ed i particolari che un tempo la rendevano familiare ed accogliente e che nel breve sarà destinata alla vendita. Gli ospiti della casa sono persone che, pur abitando insieme, sono legate in una profonda freddezza e 'indifferenza che li rendono incapaci di comunicare e stare vicini. Ognuno in modo diverso è infelice.
Un giorno, giocando a nascondino, Signe, la cugina più piccola di Thomasine, scopre, in un armadio pieno di specchi, un passaggio segreto capace di trasportare in un altro mondo, simile al loro eppure al contempo all'opposto.
Qui ad attenderli trovano una bambina che cresce con incredibile velocità e che sembra conoscere la soluzione ai problemi che stanno disgregando la famiglia. Così viaggio dopo viaggio l'oscurità si dirada facendo spazio alla rinascita e alla speranza.
Uno dopo l'altro i protagonisti intraprendono un viaggio che scioglie il nodo che li ha resi chiusi, indifferenti, arrabbiati, distanti. Ognuno fa il proprio viaggio dentro lo specchio di se stesso e scopre la ragione della propria infelicità per tornare finalmente più consapevole. A differenza di tutti gli altri, la piccola Thomasine deve affrontare, insieme al padre, il dolore che nasce dalla perdita di qualcuno di amato, reso cieco dalla colpa e dal rimpianto per cui non esiste una soluzione magica, ma solo l'espressione completa di quel dolore. Attraversare e lasciare andare il dolore permetterà di accettarlo e di riprendere la Vita interrotta con vicinanza affettiva e presenza.
Stoner di John Williams
Se volete incollarvi a un libro, questo è il libro giusto.
La storia di un uomo, di un professionista, del suo destino.
Ci sono molti attimi di felicità che lo accarezzano ma lui traccia per sé un destino ben diverso.
Scritto benissimo e con una descrizione psicologica dei personaggi profonda e chiarissima. Fa piangere parecchio, fa riflettere ancor di più. Ci sono stati momenti in cui sarei voluta entrare nel libro ad abbracciarlo, in altri a proteggerlo, in altri a parlarci a quattrocchi, alla fine a tenergli la mano.
Il libro attraversa trasversalmente i temi fondamentali della vita: la realizzazione professionale e personale, l'amore e la vita di coppia, il rapporto con i figli e la cura della propria salute psicofisica.
Suggerimento terapeutico: leggetelo e individuate le opportunità mancate. Chiedetevi il perché Stoner se le fa mancare, per quali paure e per quale senso dell'esistenza a cui non è predestinato, eppur ci si destina. E infine, chiedete anche a voi stessi se per le stesse ragioni vi fate sfuggire una serenità che vi accarezza ma che non lasciate entrare perché vi fa paura.
Ho voluto proprio bene a Stoner. Parecchio
La ballata di Adam Henry di Ian McEwan
Una storia davvero molto profonda. Chi osserva un gesto, un comportamento o un'intenzione di qualcuno lo fa all'interno di un proprio personale significato (che va oltre a religione, fede e cultura). È personale prima di tutto, significa per quella persona in primis. Errore madornale pensare che il significato sia lo stesso per due, all'interno di una relazione. In una relazione si dialoga con i significati veicolati da gesti, intenzioni e comportamenti ed è una opportunità meravigliosa poterli comprendere di cui beneficia la relazione.
Questo libro fa tanto male e fa tanto bene.
CONSIGLIATISSIMO (coi kllenex)
L'angioletto di Georges Simenon
Un vero capolavoro crudo, delicato e dolcissimo. Questo libro racconta di Louis negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale: dalla sua infanzia fino all'età adulta. Vive in condizioni di indigenza, non viene visto né coccolato, viene bullizzato e visto che non reagisce lo chiamano "angioletto". Si perde nella fantasia e non si preoccupa di quel che gli capita anche se a volte è veramente terrificante. Lui osserva e si rifugia nella bellezza di ciò che vede. Poi sente affiorare il suo talento, lo ascolta e ha successo.
Tiene sempre le distanze dal mondo e dagli altri per forza di cose ma riesce comunque a seguire la possibilità che lo rende pieno. Custodisce immagini, luci e colori. Incantato e disincantato li mette su tela. Non è mai soddisfatto, ma ha un successo inevitabile.
É un romanzo scritto divinamente, parole, odori, immagini e sentimenti non descritti ma colti nel loro aspetto, nei gesti, e nei comportamenti.
É un libro di rivincita, resilienza e talento.
Una perla.
E' un libro che senza parlare di amore ne fa nutrire tanto per Louis, il protagonista.
Il Bar delle Grandi Speranze di J.R. Moehringer
Scoperto per caso. Scelto con intenzione. Letto con passione.
E' il romanzo autobiografico di J.R. Diventato Uomo e Giornalista in un vero e proprio percorso di consapevolezza che ci viene narrato dall'infanzia fino all'età adulta.
E' una storia vera quella di J.R. ed una storia possibile per ogni Uomo.
Egli ricerca la propria identità passando dal dolore dell'abbandono del padre, dal senso di apprensione per la madre, da una buona parte della vita ad annegare la paura di non riuscire e le illusioni disilluse nell'alcol alla ricerca di un luogo sociale (il Bar delle Grandi speranze ) dove poter assaggiare la vita attraverso le parole degli altri.
Le parole in questo libro sono belle, sono pulite da infrastrutture inutili, sono musica, arte, narrativa e immagini che rendono grazia a ciascuna persona incontrata nel libro e nella vita di J.R..
Credo possa essere un libro guida per uomini che hanno paura del successo a causa del sentimento di inadeguatezza. Se lo leggete vivrete insieme a J.R. il passaggio dal senso di inadeguatezza all'essere se stesso. Ce lo fa sentire, ce lo mostra, più che spiegarlo.
J.R. alla fine del libro cita la parola Consapevolezza a cui segue un profondo cambiamento.
Per Uomini che si cercano, si trovano e diventano grandi e per Donne che li sanno apprezzare.
É un libro delicato, fa ridere, è duro, è sincero e senza vergogna.
Lettera al mio Giudice di G. Simenon
Le due parole in sinossi sono azzeccate. Esaltazione e angoscia.
Viaggio nella follia e nella disperazione più profonda dell'animo umano. La lettera di un omicida, lo si sa dall'inizio.
Quando ho iniziato a leggerlo credevo che l'autore della lettera mendicasse perdono. E mi son sbagliata. Non chiede perdono, spiega molto chiaramente in un crescendo il percorso verso la sua follia: la solitudine, il dolore, l'inquietudine, il misconoscimento di sé. Fa veramente "pena" leggerlo e fa contattare un animo profondamente disperato, braccato e senza speranze.
Credo che Simenon abbia compreso davvero i moventi profondi dei femminicidi
(di molti sicuramente), già nel 1947, anno in cui pubblicò questo romanzo che è quello che gli richiese il maggior tempo di stesura. Ce li "spiattella" lì. Non ci chiede perdono, non si ravvede di ciò che ha fatto. Ci permette solo di leggerlo insieme al giudice a cui destina la sua lettera.
E come dai sempre più frequenti fatti di cronaca contemporanei ci troviamo a sapere senza poter fare nulla perché è già successo.
Non ci sono mostri dentro di noi, ma la disperazione li può generare.
Atlante delle emozioni
di Tiffany Watt Smith
Tiffany Watt Smith, l'autrice di questo Atlante, attraversa storia, antropologia, scienza, arte, letteratura e musica in cerca delle espressioni con cui le culture di tutto il mondo hanno imparato a definire le proprie emozioni, e nel frattempo ci rivela come siano complesse e sorprendenti anche quelle che credevamo di conoscere bene. Di parola in parola veniamo risucchiati nel caleidoscopio di questo libro divertente, colto e curioso, metà enciclopedia e metà atlante, che mentre mappa le differenze affettive tra i popoli ci ricorda che proprio nell’universalità di ciò che proviamo ci scopriamo uguali.
Un libro che consiglio ai viaggiatori del Mondo e dell'Animo umano!
________________________