Sylvia di Leonard Michaels

Una possibile analisi della coppia patologica

New York. Anni ’60. Letteratura, jazz, droga e un mondo squallido e variopinto di giovani mediocri aspiranti ad essere Qualcuno.
 
Qui non c'è Sylvia, ma il suo ritratto.
Sylvia è la giovane donna dipinta in questo romanzo, l’unica che qui ha ragione di esistere tramite la sopravvivenza, con un’anima ed un contorno fatto di dolore, di non accettazione, di disagio e di rabbia. Si sa troppo poco di lei oltre al suo impeto di disperazione che strappa e divora tutte le pagine.
Sylvia compare a pagina 17 come un simulacro di bellezza e Michaels (l'autore, il narratore testimone in prima persona), ne chiacchiera con noi fino alla fine del romanzo in cui è Lei, per scelta di Lui, che continua a detenere un potere occulto, quasi divino, da Musa ispiratrice.
 
Sylvia esiste attraverso la follia che ne delinea la forma, il personaggio ma non la persona. Come in una ossessione Sylvia esiste e ispira Michaels nelle righe scritte che ho letto. Lui ce l'ha sempre  in testa (sottoforma di idea, di pensiero) ma in sua presenza gli risulta inafferrabile, inavvicinabile,  tanto è fragile e tanto è maltrattante, tanto lei lo manda via pretendo paradossalmente la sua vicinanza . Cedo alla tentazione di farmela mettere in testa. Assecondo il narratore ma so che devo prestare attenzione, mi sento portata a forza a vedere qualcosa per non vedere qualcos'altro. O qualcun altro. Lui che non si nomina e non viene mai nominato, di cui possiamo dedurre il nome dalla copertina del libro che teniamo tra le mani, mentre leggiamo di Sylvia. Sarebbe bastato un dialogo in cui qualcuno lo chiamava, lo citava: "Leonard, sei …". Niente. Lui non compare neanche nella bocca di lei. Nella bocca di nessuno. Innominato. 

Lui si trascina nell’esistenza attraverso Sylvia e sembra esistere solo attraverso questa forma di diade patologica. Fagocita ed è fagocitato. Sylvia è inarrivabile, è ingombrante ispirazione lirica. Eterea e inavvicinabile nell’anima, come tutte le Muse. E non ha proprio tutti i torti a essere incazzata con lui e a non sentirsi da lui accettata, se è stata scelta come Musa. Mica le si sceglie per vivere al proprio fianco, le Muse. Le Muse ispirano ma non hanno anima, né corpo, né carne. Le Muse sono idee a cui si tende per trovare ispirazione e se non la si trova possono abitare ossessivamente le nostre menti.

Sylvia si guarda allo specchio e lo distrugge, Lui si guarda in Sylvia e cerca di tenerne insieme i frantumi dello specchio. Lei vuole frantumare l'idea che sa di non essere e lui si ostina a tenere insieme i cocci.
È chiaro che non è amore tra i due, è necessità e paura di esistere, è tentativo di sopravvivere in qualche modo. Impossibile la comunicazione tra i due. Del resto, come si fa a comunicare se non si sa chi c'è dall'altra parte, né si sa cosa si vuol dire.
I due sono contenuti in una relazione fatta di due unità che si incastrano in una simbiosi patologica, in un legame dove la Vittima e il Carnefice si alternano nella relazione, e dove ognuno a suo modo Salva l’altro. Io butto i cocci, Tu raccogli i cocci. Tu butti i cocci, Io raccolgo i cocci. E via così. Lui che racconta e sembra continuamente ripetere Guarda che matta, Guarda come sto male! E che rimane in uno stato quasi stuporoso e in impasse. La relazione non va né avanti né indietro. Sta lì, tra Lui e Sylvia. Lui si aggrappa agli occhi degli altri per trovare legittima questa condizione. Condizione immutabile dove non viene riconosciuto a nessuno dei due il potere di cambiare qualcosa, se non alla fine con il tragico gesto.

“[…] in maniera simile alla loro mi cullavo nell’idea che ogni uomo e ogni donna che vivevano insieme fossero come Sylvia e me. Ogni coppia, ogni matrimonio erano malati. Quest’idea, come un salasso, mi purgava. Ero infelicemente normale, ero normalmente infelice. Qualunque cosa la gente pensasse di me, io potevo pensarla di loro. Potevo ostentare la mia vergogna sottoforma di disprezzo verso gli altri. Non c’è travestimento migliore per la vergogna del disprezzo, e niente è più facile che schernire e denigrare. Niente è più gratificante per la vanità altrui.”

Quando Sylvia è ormai completamente inglobata nel senso della vita di Lui (che se la è accaparrata subito e voracemente per colmare un vuoto di senso e progettualità), Lui ormai è incapace di lasciarla andare, di rinunciarvi: fuori da quella relazione non ci sarebbe più identità. Lei trova il suo paniere e lui il suo pane. Chi sono io, Chi voglio essere, Chi amo. Sono le voci necessarie di una esistenza, prima di qualsiasi incontro, che fanno tremare nel non avere risposta e che e si spengono in Lui di fronte all’alibi di Sylvia che chiede abnegazione, che lo maltratta e lo colpevolizza per dare un senso fugace alla necessità tentata di sopravvivere.

E ora che lei è morta quell’abnegazione viene restituita scrivendo di lei, scegliendo sapientemente dettagli che per contrasto in chiaroscuro fanno emergere Lui che cerca l’alleanza con noi che leggiamo e ci invita a schierarci da una parte o dall’altra della diade patologica dove se uno vive l’altro muore, soccombe.
Nessuno può esistere senza l’altro, questa è la storia di Sylvia.

In questo romanzo c’è tanta paura di Essere e di Esistere, di avere dei sentimenti, di superare insicurezze e difficoltà. C’è tanta paura di fidarsi e di affidarsi l’Uno all’Altro. Questo potrebbe essere l’Amore tra i due, ma la storia non ne parla.
Qui l’amore è offuscato da liti umilianti a cui seguono attimi di tregua in un sesso sfrenato e vorace che non appaga nessuno dei due e che scarica la tensione dell’esistenza mancata di lui e della sopravvivenza di lei. Questa storia è un motore a scoppio che, nel riferito del narratore, ciascuno dei due aziona o tiene acceso solo perché vorrebbe esistere ma non riesce a farlo senza l'altro. E si riaccende da capo quando si sta per spegnere per non piombare nel buio della solitudine del proprio corpo e della propria anima. Quando la storia potrebbe essere finita riparte senza memoria delle interruzioni costanti, ripetute e circolari degli eventi drammatici che ne fanno la quotidianità e sono l’escalation fino all’inevitabile tragedia finale.
Non c’è dubbio che il finale di copione di questa storia l’abbia scritta Sylvia, perciò il titolo è amaramente meritato. Tra i due di certo, stando a quel che ci vuol far credere Michaels,  è quella che aveva più potere mentre di Michaels sentiamo continuamente e costantemente la sua frustrazione. Una narrazione possibile, non l’unica possibile nella vita dei due. Intollerabile per Michaels dirigere lo sguardo dentro sé stesso, meglio rifugiarsi nell’impossibile, desiderata diade amorosa che non è reale, che non sarà mai se non nella sua testa. Tant’è che con il corpo ancora caldo alimenta e reitera ancora la sua illusione d’amore con un sogno in cui vivono un attimo di felicità. Un attimo di sollievo gli basta. E stavolta Sylvia non c’entra, perché è morta. E viene fuori chi è Sylvia: è l'idea di Sylvia. E l'idea lo continua a ispirare.
 
Questo libro mi è piaciuto moltissimo per la chiarezza con cui descrive gli incastri emotivi possibili che alimentano le relazioni patologiche all’ordine del giorno nella società contemporanea, nei fatti di cronaca risonanti e nelle silenziose escalation tra le mura domestiche. In una relazione di coppia patologica spesso erroneamente si attribuisce la causa, o peggio la colpa, all’altro che viene etichettato come problematico o malato. In realtà è vero che spesso uno dei due più dell’altro fa da collettore di un disagio che riguarda la coppia per intero, ma è altrettanto vero che in una coppia si è ugualmente responsabili (e non colpevoli) dell’incastro. L’attribuzione di colpa ha il vantaggio di sollevare dalla responsabilità, ma lo svantaggio di togliere qualsiasi potere di cambiamento in una relazione che non funziona e che addirittura può diventare patologica. Quindi non fatevi ingannare dal titolo, qui non si parla solo di Sylvia “la matta”, ma delle opportunità psicologiche disfunzionali che si nascondono nel rifugiarsi nel disagio altrui per non occuparsi del proprio al fine. Talvolta fa più paura diventare individui autonomi che possono riconoscere e dare valore e responsabilità ai propri sentimenti ed alle proprie decisioni, che continuare a soffrire in ciò a cui si è “abituati”. L’abitudine soffoca illusoriamente la paura di Essere ciò che si è o di Diventare.
Prima di misurarsi con l’altro e trovare l’incastro, bisogna conoscere le proprie misure, senza nascondersi. Vale per tutti gli uomini e per tutte le donne allo stesso modo e questo romanzo ne è la testimonianza. Il mio invito per chi lo ha letto o lo leggerà è di andare a recuperare in questo romanzo l’altra metà della coppia, quella occultata nella vergogna di un figlio che si nasconde ancora dietro alle aspettative dei propri genitori e non sa decidere della sua vita, non riesce ad assumersi responsabilità per un lavoro e per una vita di coppia soddisfacente e sana. Quel figlio in questo romanzo chiacchiera con noi di Sylvia nascondendosi tutto il tempo dietro di lei. Leggete il romanzo e poi andate a pagina 55: “Prendete due persone qualsiasi che chiacchierano: faranno commenti malevoli su una terza. È una forma perversa di generosità, e di autoadorazione.”.
Qui Michaels confessa i suoi intenti nel parlarci di Sylvia.
 
Chissà se, dopo Sylvia e negli scritti successivi a questo romanzo, Leonard Michaels avrà riconosciuto, senza ricorrere a terzi ostacoli o compiacenti alleati, la sua generosità, il suo bisogno di spazio, il suo desiderio di gratificare sé stesso. All’interno di una psicoterapia si aiuta una persona a ritrovare la legittimità di questi motori perché sono necessari, sani e umani in chiunque voglia realizzarsi con la propria responsabile ed incolpevole autonomia. Quando non vengono legittimati è molto alto il rischio che possano ricadere dietro la coltre della vergogna che pur di censurarli giustifica relazioni troppo sofferte, drammatiche o addirittura tragiche.
 
Libro di gran pregio per la scorrevole scrittura e per il contenuto utilissimo a cui dedicare un approccio terapeutico per la persona e per la coppia.
 
Buona lettura.
 


Confidenza di Domenico Starnone

Romanzo consigliato per un viaggio in treno e sui mezzi, non richiede particolare concentrazione pur essendo ben tessuto il vissuto psicologico dell'Io Narrante, nonché protagonista.
La "Confidenza" del titolo tiene appesi noi che leggiamo e ci fa avvertire il senso di incertezza e di inquietudine del protagonista.
É un intreccio sviluppato sulla paura dei protagonisti e sul tentativo di un suo controllo che ne consegue. La paura mostrata è quella di vedersi ed accettarsi coltivando invece un modello ideale che si cerca di rispettare...lontano dalla verità di sé stessi ovviamente. Autenticità sconosciuta al protagonista e di lì tutte le sue difficoltà.
La parte in ombra del protagonista viene impacchettata in una confidenza fatta ad una ex e costituirà motivo di ricatto e terrore per tutta la sua vita; sarà da impedimento e trappola per avere relazioni autentiche e vivere serenamente. La "confidenza"  tesse il copione del protagonista schiacciato dalla paura di deludere e incapace di godere del successo perché attribuito alla maschera che si trova costretto a indossare anziché al suo Vero Sé..